Alle origini del Progetto “Etica ed Ecologia in Agricoltura”: James Lovelock

La seconda figura fondamentale per delineare il pensiero ecosofico: James Lovelock


Nel 1988 James Lovelock all’interno di un impegnativo ripensamento dello statuto epistemologico della sua teoria gaiana, avanzata un decennio prima (1979), tra i fattori di perturbazione dell’equilibrio omeostatico del pianeta vivente Terra-Gaia, inserisce, come il più decisivo, l’agricoltura, nella forma meccanico-industriale raggiunta negli anni ‘70 nel mondo e in quell’Inghilterra dove viveva. 
Un percorso di ricerca nutrito e confortato dalla lezione di Rachel Carson, più volte richiamata, nonché dal vivo contatto con biologi ed epistemologi del vasto campo dell’olismo (Lynn Margulis, Lewis Thomas, John Todd, Wilham Irvin Thompson, Mary Catherine Bateson, Peter Bunyard, Edward Goldsmith).
In Nuove età di Gaia, appunto, Lovelock, per quanto riguarda il tema eletto in questo nostro percorso, aggiunge materiale di riflessione veramente stimolante ed innovativo.
Costruito come bilancio del senso e delle forme etico-epistemiche del suo “Abitare” nelle campagne inglesi.
Dopo vent’anni, la prima residenza a Bowerchalke gli appariva superata. Un’agricoltura “troppo intensiva” ritma il passaggio, ad esempio, da campi che “d’estate sono […] la gloria del Wiltshire, rossi di papaveri confusi tra il grano” a “distesa verde di orzo”, da “prati che un tempo erano un giardino di fiori selvatici”, da luogo definito dalla intima connessione di “gente e campagna” che vivevano in armonia, in cui il paesaggio era “simile al palcoscenico di un anfiteatro di monti verdi e alberati” alla monotonia e piattezza e povertà di forme dei “campi arati e seminati con un’unica specie di erba”.
Il giudizio di Lovelock su questa nuova fase della rivoluzione industriale in agricoltura è durissimo: “la recente distruzione della campagna inglese” – avvenuta negli anni ‘60 e ’70 – “è un atto di barbarie che ha pochi paralleli nella storia moderna”. Esso ha visto i “mulini satanici” evocati nel 1800 da W. Blake, estendersi sino a “trasformare l’intera Inghilterra in una fabbrica” e a distruggere l’antica e collaudata alleanza realizzatasi nelle “campagne inglesi” tra “uomo e natura”, fonte di ispirazione per lo “stesso Darwin” (il “mistero della «riva intricata» del fiume tutta ricca di erbe”).
Una “campagna inglese” che “era una grande opera d’arte” espressione, quasi, di quel “sacro” “che attribuiamo alle cattedrali, alla musica e alla poesia”.
Una vera e propria “sterilizzazione” del “paesaggio agricolo” che ormai per Lovelock è diventata egemonica, estendendo i suoi tentacoli da Bowerchalke al Devon, la sua nuova zona di residenza. Neanche avvertita, nella sua drammaticità, dal movimento ambientalista.
Una strategia di annichilimento di cui Lovelock si sente in parte responsabile avendone sostenuto alcuni percorsi nella fase iniziale (anni ‘40) e che era stata promossa con le migliori intenzioni, dall’umanitarismo (ma antropocentrico e meccanicista) dei governi laburisti alla fine degli anni ‘40).
La critica, severissima di Lovelock non riguarda, tuttavia, solo le campagne inglesi. E’ l’agricoltura in generale nella sua ultima forma meccanizzata ed industrializzata ad apparire, a livello planetario, la “più grave minaccia per la salute di Gaia” espressione della “più grave ed irreversibile modifica geofisiologica… apportata dall’uomo” al pianeta.
In essa “tre” sono i “pericoli mortali” che incombono sull’”umanità”: scappamenti, stalle (allevamenti bovini e alimentazione carnea) e seghe meccaniche.
Tre anni dopo, nel 1991, Lovelock riprende l’asprezza della sua analisi nel nuovo testo Gaia. Manuale di sopravvivenza planetaria.
L’agricoltura appare sempre “la più grande minaccia alla sopravvivenza umana”. Tra poco, sottolinea Lovelock, “due terzi degli ecosistemi naturali di Gaia” saranno sostituiti con “sistemi agricoli” portando ad un vero, nuovo, smisurato peccato: la rottura con “i nostri legami con Gaia”.
Ecco: “Se continuiamo a spogliare la superficie terrestre, a impoverire il suolo e a chiedere sempre di più alla terra per i nostri raccolti e il nostro bestiame, raggiungeremo ben presto un livello critico di degrado di tutti gli ecosistemi naturali terrestri di Gaia: il livello cui l’intero sistema comincia a cedere”.
Intoccabili, allora, per Lovelock, devono rimanere “le grandi foreste dei tropici” che fanno parte del sistema di raffreddamento e di condizionamento dell’intera terra”.
Sempre di più, perciò, uno dei tre più gravi pericoli per l’umanità, appare l’agricoltura arrivata ormai all’età del primato della zootecnia (che Lovelock, in Nuove età di Gaia aveva definito il pericolo “stalla”): “l’insaziabile fame di carne” deve fare capire che non si può continuare a distruggere “le foreste per far posto ad allevamenti di bestiame”.

Il percorso dell’utopia di Lovelock
Lovelock non si rassegna, tuttavia, al nichilismo avanzante che vede “agricoltura e deforestazione” far scivolare l’umanità verso un “ecocidio globale”. 
Immagina di poter ricostruire un nuovo “Abitare” nelle campagne inglesi quasi, con W. Blake, “nuova Gerusalemme”.
Una campagna in cui un terzo di territorio non dovrebbe essere coltivato, ma tenuto a “bosco” e a “macchia di erica”, con un sesto dell’area “abbandonato” alla “vita selvatica”.
Il territorio agricolo invece dovrebbe presentare due percorsi di lavoro: uno di agricoltura intensiva, l’altro di “piccole fattorie” “in armonia col territorio”.
Un progetto di neoumanesimo planetario: dove il richiamo è ad un “Abitare” che si ispiri alla bellezza quasi sociale della pianura - giardino della Inghilterra di mezzo secolo fa.
Un’”Inghilterra” “bellissima”: un vero “giardino” “accudito” dall’opera dell’uomo “con cura meravigliosa”.
Un “Abitare” dove il mondo non sia pensato come oggetto, come “macchina”, ma “come organismo vivente” di cui siamo parte attiva e responsabile.
La critica di Lovelock all’agricoltura intensiva continua e si fa più radicale, infine, nell’ultimo suo lavoro “La rivolta di Gaia”.
Egli arriva a considerare infatti (in accordo con E.O. Wilson, R. May, N. Myers) un’agricoltura che riduce lo spazio degli ecosistemi naturali (e in primis della foresta) addirittura come il pericolo maggiore per la sopravvivenza di Gaia. Questa forma di agricoltura, infatti, porterebbe ad “un’estinzione della vita paragonabile a quella associata alla scomparsa dei dinosauri”.

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