Quello della cementificazione è un problema sempre più grande: riqualificare gli edifici esistenti e aumentare il valore dei terreni lasciati a verde può essere la strada giusta per crescere senza distruggere risorse
| da milligansganderhillfarm |
Sappiamo da tempo che la costruzione e il mantenimento dell’habitat artificiale dell’uomo, gli edifici e la loro climatizzazione, l’arredamento, l’illuminazione, le infrastrutture di servizio (strade, parcheggi) stanno sottraendo al nostro pianeta la maggior parte delle sue risorse naturali non rinnovabili.
Perchè o le brucia, o le rende non recuperabili (non è facile riciclare i materiali compositi, come il cemento armato). Ma rende anche irrecuperabile la terra sulla quale estende le sue costruzioni.
I dati sono controversi e difficili da rilevare, ma si stima che in Italia negli ultimi 40 anni edifici e infrastrutture abbiano sottratto a campi e boschi da 2.500.000 a 4.500.000 di ettari.
Una quantità immensa, e ciò che dovrebbe preoccupare è che lo hanno fatto per sempre.
Non dimentichiamo che ogni metro quadrato di terra coperto da gettate di cemento e asfalto non assorbirà mai più pioggia per filtrarla e trasformarla in acqua da bere, non produrrà mai più ossigeno nè cibo, non sosterrà mai più la vita di tutte le specie viventi minori, anelli importanti della catena dalla quale proviene il nostro cibo proviene.
E si può vivere senza case e senza strade, ma non senza acqua e cibo.
Persino nell’ottica fredda del profitto questo sacrificio appare sempre più insensato, per almeno due motivi.
Innanzitutto perchè l’offerta di edifici esistenti supera ormai largamente la domanda: in Italia, escluse le seconde case, un milione e duecentomila abitazioni sono vuote (dati Legambiente). Basta andare in giro per Milano e hinterland per constatare che almeno un quarto degli edifici per uffici sono anch’essi inutilizzati o non finiti.
Inoltre gli edifici esistenti, soprattutto quelli costruiti nella seconda metà del XX secolo, consumano almeno 5 volte più energia di un edificio moderno, e continueranno a farlo per molti decenni. Riqualificare l’edilizia esistente è diventato più urgente e importante che costruire nuove case.
La frase di Carl Elefante “the greenest building is the one which is already built”, ovvero un edificio che esiste non richiede consumo di risorse per essere prodotto, assume oggi, grazie anche alla cosiddetta crisi, un senso anche nella logica del mercato delle merci.
Dunque ci restano due alternative: demolire e ricostruire ciò che non è recuperabile e riqualificare l’enorme volumetria inutilizzata ma recuperabile, anche destinandola ad usi diversi da quelli attuali (ad sempio ad abitazioni a basso prezzo, quelle sì tuttora carenti).
Non facciamoci intimidire dalle proteste delle imprese immobiliari e dal ricatto della perdita di posti di lavoro, con un patrimonio edilizio esistente stimato in Italia di trenta milioni di immobili solo residenziali, di cui almeno dieci milioni obsoleti dal punto di vista energetico, il problema è falso, c’è da fare quanto basta per garantire decenni di lavoro a imprese edili, lavoratori, professionisti, tecnici, consumando poche materie prime e niente terra.
Dunque l’industria delle costruzioni non ha scuse per non avviare un processo di conversione virtuoso, che non penalizzi imprenditori e manodopera ma che consumi sempre meno risorse preziose. Chi si preoccupa per l’ambiente può tirare un sospiro di sollievo? Purtroppo no.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, degli impegni di intere categorie, dell’evidenza schiacciante dei dati, sappiamo che l'inerzia del sistema edilizio è enorme, anche perchè si costruisce oggi ciò che si è progettato (e per cui si sono chiesti permessi e finanziamenti) cinque o più anni fa. Anche l’indotto è enorme, chi vive cementificando il territorio è potente, e colossali sono gli interessi in gioco.
Sappiamo poi che le banche adorano guadagnare senza fatica, quindi preferiscono prestare soldi a chi ha la stessa passione, ovvero a chi fa grandi profitti con le rendite di capitale e di posizione (le grandi imprese), lasciando a secco chi fa pochi profitti con il proprio lavoro (artigiani e piccole imprese).
La palla dovrebbe passare agli enti che governano il territorio, essi hanno gli strumenti per frenare o accelerare gli investimenti in una direzione o l’altra, ma il conflitto di interesse per questi è evidente: i comuni avrebbero tutto l’interesse a salvaguardare il territorio, ma non possono fare a meno degli oneri di urbanizzazione per tirare avanti.
Certo, a frenare nuovi investimenti nell'edilizia oggi provvede la cosiddetta crisi, al resto si cerca di porre rimedio, anche se in ritardo, con interventi normativi. E bisogna innanzitutto riconoscere che le amministrazioni pubbliche ormai si sono dotate di validi strumenti di difesa della qualità edilizia, ma per quanto detto sopra invece non hanno abbastanza forza e strumenti per difendere il territorio naturale.
Infatti il nocciolo del problema è un altro, e se non lo si affronta nulla cambierà. Vediamo di che si tratta.
E' noto che, soprattutto in aree già antropizzate, un terreno agricolo o boschivo vale meno di un terreno edificabile. Perché produce meno ricchezza, e comunque se produce una rendita lo fa più lentamente e con più fatica. Per far rendere la terra bisogna coltivarla, ci vogliono lavoro fisico, macchine, materiali, il profitto che da è basso e per poco guadagno ci vuole molto lavoro per molti anni, mentre un terreno una volta edificato produce un profitto alto e in pochi anni, con un impegno di risorse limitato nel tempo. Se poi il terreno è non coltivato, o difficilmente coltivabile perché in pendio, o a bosco, a rendimento zero o quasi, il confronto diventa impietoso.
Questo dunque è il problema: non bastano le buone intenzioni e la buona cultura, il processo di cementificazione del territorio non si arresterà finchè il sistema economico non riconoscerà alla terra, coltivata o a bosco, il valore di "capitale naturale", con valore almeno pari alla terra coperta da edifici o infrastrutture. Un sogno impossibile? Forse, ma qualcosa si può fare.
Vi sono modi per aumentare il valore del terreno a verde, e vi sono modi per sottrarre valore all'edificabilità del suolo. Combinando i due modi, il sogno si potrebbe realizzare.
Partiamo da come si può aumentare il valore del terreno a verde.
Prendiamo come esempio il progetto Carbomark sviluppato per ora dalle Regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia nell’ambito del progetto Life+ della CE, nel quadro della valorizzazione dei crediti di carbonio avviata con il Protocollo di Kyoto.
Ogni area lasciata a verde, non solo i boschi ma anche il verde urbano, in quanto capace di ridurre il consumo di ossigeno, può acquistare un valore economico per la collettività che ne è titolare, che può vendere crediti di carbonio alle aziende. Si tratta di uno strumento in corso di sperimentazione, per ora associato a presenze arboree, ma si dovrà prima o poi convenire che un ettaro di prato produce ossigeno tanto quanto un ettaro di bosco.
Poi ricordiamoci che nei giovani è sempre più diffuso l'interesse per l'agricoltura, che in altre nazioni si stanno diffondendo gli orti urbani, dei quali ormai si riconosce il valore sociale, contribuendo a consolidare il senso della comunità (alcuni la chiamano ortoterapia).
Ma non solo. Vi sono colture selettive ad alto rendimento per le quali non sono necessarie grandi aree, e vi sono i micro-parchi di quartiere. Anche aree già parzialmente urbanizzate o frammentate in piccoli lotti si presterebbero a questi modelli d’uso, redditizi o comunque dotati di valore sociale. In aree con vocazione turistica questi utilizzi avrebbero un reale impatto economico.
Questi sono esempi di come il valore del terreno lasciato a verde possa crescere.
Come sottrarre valore al terreno edificabile? Solo gli enti locali possono farlo, e per farlo debbono individuare vantaggi per le imprese e vantaggi compensativi agli oneri di urbanizzazione. Comunque una politica di azzermento del consumo di territorio è oggi sperimentata con successo da alcuni comuni, ad esempio Cassinetta di Lugagnano nell’hinterland milanese, nella convinzione che ciò accresca l’attrattiva e il valore del luogo, compensando così la perdita di entrate.
Se a ciò si combinassero incentivi a recuperare gli edifici esistenti si potrebbe innescare un circolo virtuoso, tale da convincere chi possiede un terreno edificabile a rinunciare a tale uso a favore di una destinazione a verde, o un'impresa edile a investire nel recupero edilizio.
Ma oltre all'edilizia residenziale e terziaria, altri insediamenti e infrastrutture si mangiano una parte dei 100 ettari di terreno agricolo perso ogni giorno e per sempre in Italia (fonte ISTAT).
Centri commerciali con ampi parcheggi asfaltati, nuove strade, svincoli, eccetera. Per questo possiamo solo contare sulla capacità degli enti locali di frenare queste iniziative, siano esse private o pubbliche, se non sono assolutamente necessarie. Ad esempio introducendo il valore del “capitale naturale” in ogni valutazione di impatto ambientale.
Certo, così si costruiranno meno edifici, meno autostrade, meno centri commerciali. Ma è un male? Tra qualche decennio nel mondo ci saranno molte più case e strade di quante ne servano, ma un disperato bisogno di più cibo, di più acqua potabile. Sappiamo che sostituire la terra con il cemento vuol dire segare il ramo sul quale i nostri figli dovranno stare seduti, smettiamo di farlo finchè siamo in tempo.
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