A Feltre si è appena conclusa la Conferenza nazionale sulla Convenzione delle Alpi, tenuta in prospettiva della Presidenza di turno italiana: vediamo quali sono limiti e potenzialità di questo importante Trattato internazionale
Nell’anno 1991 a Salisburgo,
importante città alpina conosciuta per i vicini giacimenti di salgemma,
prendeva forma il Trattato internazionale denominato «Convenzione delle Alpi».
A partire da questo storico evento, lo spazio alpino ha iniziato ad essere
percepito come un’area strategica per un’idea di Europa più consapevole della
centralità delle Alpi. La macroregione alpina ha incominciato ad assumere un
significato diverso rispetto alla visione, ormai obsoleta, che la rappresentava. Una
visione incentrata ancora sul logoro stereotipo della catena alpina come
ostacolo naturale o frontiera militarmente strategica. Da barriera fra gli
Stati nazionali, le Alpi hanno incominciato ad essere finalmente ripensate alla
stregua di una cerniera di popoli, di lingue e di culture nel recupero, più o
meno consapevole, del paradigma medievale delle “Alpi aperte”. Alpi
porose e pacifiche, quindi, non più terreni di guerra.
Austria, Germania,
Svizzera, Italia, Francia, Slovenia, Liechtenstein, Monaco – pur in anni
diversi – hanno contribuito alla costruzione di uno spazio orografico comune,
orientato a salvaguardare la qualità dell’ambiente naturale e sociale. La cooperazione transfrontaliera doveva
diventare la ragione fondante su cui incardinare le buone pratiche di
rivitalizzazione del mondo alpino. La Convenzione, al fine di conseguire gli
obiettivi specifici prefissati, ha messo a punto Protocolli e misure di
attuazione degli stessi nei settori di più vitale importanza. I Protocolli sono
complessivamente otto e coprono aree tematiche che vanno dalla «Pianificazione
territoriale e sviluppo sostenibile» all’«Agricoltura di montagna», dalla
«Protezione della natura e tutela del paesaggio» alle «Foreste montane», dal
«Turismo» alla «Difesa del suolo», dall’«Energia» ai «Trasporti». Oltre ai
Protocolli sono state formulate anche due Dichiarazioni politiche: una su
«Popolazione e cultura», l’altra sui «Cambiamenti climatici». A distanza di
venti anni, il grado di accoglienza e condivisione della Convenzione varia
sensibilmente da Paese a Paese. L’Austria, in particolare, ha recepito i
Protocolli nel proprio ordinamento legislativo nazionale ratificandoli nella
loro interezza. La Svizzera non ha dimostrato la stessa determinazione e
l’Italia si trova ad aver beneficiato della ratifica comunitaria relativamente
all’Agricoltura di montagna, all’Energia, al Turismo ed alla Difesa del suolo.
Il punto più critico, dalla parte italiana, riguarda il mancato recepimento del
Protocollo Trasporti. La materia è, però, sempre più strategica ed
indifferibile nel tempo. L’aumento della mobilità impone scelte coraggiose a
favore della rotaia, in ragione della necessaria riduzione dell’inquinamento da
autotrasporto e dei minori costi di esercizio sulle medie e lunghe distanze.
Malauguratamente, l’Italia rischia di creare una insopportabile discontinuità
all’interno dello spazio alpino, dove gli altri Paesi hanno fatto scelte
coraggiose a favore del trasporto ferroviario. Un altro Protocollo strategico
da rinforzare è, a mio avviso, quello dell’Agricoltura di montagna. Si tratta
di un settore che va incoraggiato, non tanto in direzione produttivistica,
quanto in funzione del mantenimento del paesaggio culturale. Serie emergenze
sono rappresentate, oggi, da nuovi imprevisti scenari rispetto a quelli di
vent’anni fa. In conseguenza dello spopolamento, si sta registrando
un’eccessiva avanzata delle foreste e dell’inselvatichimento della montagna.
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito impotenti alla sparizione di vaste
superfici di campi, prati e pascoli. La rinaturalizzazione dei tradizionali
spazi aperti ad uso agricolo riduce fortemente la biodiversità ed omologa gli
ambienti naturali verso il basso. I cambiamenti climatici in senso caldo umido
accrescono, infatti, il dinamismo della vegetazione arborea e
cespugliato-arbustiva. Bisognerebbe rivedere, perciò, la tendenza a favorire
l’aumento dell’estensione forestale contenuta nel Protocollo. Essa rischia,
infatti, di diventare troppo invasiva e soffocante. L’altro settore vitale per
le Alpi è il turismo. Alla luce del Protocollo, esso deve possedere caratteri
di sostenibilità ambientale ed essere orientato in senso naturalistico e
conoscitivo. I dati statistici sul turismo nelle Alpi ci dicono che il
fenomeno delle seconde case genera una
sempre maggiore disaffezione fra i vacanzieri e che i trend negativi del
turismo estivo tendono a penalizzare le località che hanno abusato in questa
direzione. La conclusione che si può trarre, a venti anni dalla nascita della
Convenzione, è che molto rimane ancora da realizzare per l’applicazione dei
Protocolli. Ma qualcosa va anche ripensato nella prospettiva di una coraggiosa
rivisitazione degli stessi alla luce dei cambiamenti intervenuti o in corso. E
ciò vale sia in rapporto alla velocità dei processi naturali, come i
cambiamenti climatici, sia in relazione alle profonde trasformazioni
socioeconomiche e culturali.
Per gentile concessione
de "L'Adige", pubblicato il 10/05/2012

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