“Abitiamo tutti sullo stesso pianeta …” Il cambiamento climatico e l’Africa

Nonostante l'Africa contribuisca in minima parte alle emissioni di gas serra mondiali, i dati sul riscaldamento climatico e sui suoi effetti in questo continente sono impressionanti. Saranno dunque necessarie strategie di contrasto al fenomeno che andranno supportate da una concreta solidarietà ambientale, con il coinvolgimento attivo del mondo industrializzato
 E’ trascorso quasi un decennio dall’ormai celebre lettera aperta con la quale, nel 2005, Lord May (presidente della Royal Society ed ex capo consigliere scientifico del governo britannico) avvertiva i ministri dell’ambiente del G8, riuniti a Gleneagles, di come il riscaldamento globale minacciasse di mandare completamente in rovina l’iniziativa internazionale finalizzata a salvare l’Africa dalla povertà.
Il discorso di Lord May, che si basava su elaborazioni largamente condivise nella comunità scientifica, è stato in seguito suffragato da una serie ponderosa di studi diffusi da istituti internazionali di ricerca e da organizzazioni delle Nazioni Unite. Così, sempre nel 2005, il “Working Group on Climate Change and Development”promosso” da un gruppo di ONG britanniche, divulgava il rapporto “Africa - Up in Smoke 2”Il quadro proposto da questo importantissimo documento era impressionante:

Il clima africano – in particolare nelle regioni semi-aride – è sempre stato assai erratico, da un anno all’altro e anche per lunghi periodi. Il successo o il fallimento di una stagione delle piogge, o anche di parecchie, non può essere attribuito al riscaldamento globale. Tuttavia, l’Africa è in continuo riscaldamento, il clima sta cambiando, e i modelli predicono un ulteriore riscaldamento e ulteriori modificazioni nell’andamento delle piogge. Il continente nel suo insieme è più caldo di 0,5°C rispetto a 100 anni fa, ciò che sottopone ad uno sforzo ulteriore le risorse idriche. I sei anni più caldi in Africa si sono avuti a partire dal 1987 ed il 2005 è stato registrato come il più caldo a livello globale. […] La temperatura massima nelle highland della Rift Valley, dove è coltivata la maggior parte del tè esportato dal Kenya, ha subito un incremento di 3,5°C nel corso degli ultimi 20 anni. A Lamu, sulla costa nord-est del Kenya in prossimità della Somalia, la massima è aumentata di più di 3°C a partire dal 1940. Lo UK’s Hadley Centre afferma che l’aumento di temperatura in moltissime zone dell’Africa sarà doppio della media mondiale. La tendenza è verso estremi più marcati. Le aree aride o semi-aride nel Nord, nell’Ovest, nell’Est, ed in parte nel Sud dell’Africa stanno diventando decisamente più secche. L’Africa Equatoriale ed altre parti dell’Africa del Sud sono più umide. [...] I contadini sono sempre più preoccupati del caotico modificarsi delle stagioni, e del clima violento, erratico e imprevedibile. E’ sempre più difficile sapere quando e dove investire tempo, energie e idee preziose nel coltivare e in altre attività. Sta diventando chiaro che in molti posti si sta già verificando un pericoloso cambiamento climatico.”

Ed era ancora del 2005 la pubblicazione di una ricerca dello US Geological Surveyche metteva in luce come in Etiopia e nei paesi confinanti le precipitazioni fossero costantemente diminuite a partire dal 1996, in stretta correlazione con l’aumento delle temperature superficiali dell’Oceano Indiano. Il conseguente sconvolgimento della stagione delle piogge aveva dimezzato i raccolti di molte coltivazioni, tra cui quelle, vitali, di mais e sorgo.

Nel 2006 in uno studio della AEON (Rete Africana di Osservatori Terrestri, coordinata dall’Università di Capetown) si affermava che un aggravamento della situazione avrebbe delle “conseguenze devastanti” per la popolazione. Entro la fine di questo secolo il continente sarà diviso in tre “regimi” climatici, in base al livello delle precipitazioni annuali:
-   il 41% della superficie continentale (l’Africa settentrionale, il Sahel, la maggior parte del Corno d’Africa, la metà occidentale del Sud Africa, la Namibia e la costa dell’Angola) sarà costituito da aree secche, con meno di 400 mm, e un calo delle piogge del 20%

-   un aumento delle piogge fino al 10% si registrerà nelle aree umide, con più di 800 mm (l’Africa centrale e gran parte dei paesi sul golfo di Guinea, le zone orientali del Sudan, l’Uganda, la Tanzania, il Mozambico e il nord del Madagascar).

- il 25% della superficie sarà costituito da aree intermedie o instabili, con precipitazioni tra i 400 e gli 800 mm. La riduzione delle precipitazioni avrà gravissime conseguenze sulla disponibilità di risorse idriche: per la conformazione idrogeologica la riduzione di risorse idriche disponibili per l’uomo risulterebbe molto maggiore della diminuzione di piovosità. Basti pensare che in zone come il Sud Sudan e il Sud Niger la pioggia è in gran parte assorbita dal terreno prima di raggiungere specchi e corsi d’acqua. Il 10% in meno su 600 mm annui di pioggia si tradurrebbe qui in una diminuzione pari al 50% nel drenaggio alla superficie. Timori amplificati nell’aprile del 2007 dall’IPCC, che, nel suo rapporto “Cambiamento climatico 2007: impatti, adattamento e vulnerabilità”, prevede che fino a 250 milioni di persone nel continente potrebbero avere problemi di accesso all’acqua entro il 2020, a causa del cambiamento climatico. Sempre secondo il rapporto, nello stesso periodo la produzione agricola potrebbe in alcuni casi arrivare a dimezzarsi. Tra gli altri possibili effetti, l’aumento del livello dei mari verso la fine del secolo potrebbe provocare un gran numero di vittime e massicce distruzioni delle infrastrutture nelle aree costiere densamente popolate.
E poi, tutto un susseguirsi di rilevazioni allarmanti e di previsioni catastrofiche. Più di un terzo degli habitat naturali africani perduto. Crollo dei raccolti agricoli conseguente all’aumento delle temperature e all’aggravarsi delle siccità. La neve sta scomparendo dalle vette di Kenya e il Kilimanjaro, come pure dalle altre montagne dell’Africa orientale, e ciò significa si asciugheranno i corsi d’acqua alimentati da queste nevi.

L’Africa è l’ultima responsabile del cambiamento climatico, ma sarà la regione maggiormente colpita. [...] I nuovi dati scientifici mostrano che l’Africa è più vulnerabile alle conseguenze climatiche di quanto si ritenesse in precedenza” dichiarava nel 2006, alla Conferenza ONU di Nairobi sul cambiamento climatico, Nick Nuttall, portavoce del UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente). Gli scienziati stimano che, per evitare impatti disastrosi e irreversibili, sia necessaria una riduzione dei gas serra su scala mondiale pari all’80%: è un obiettivo che fa impallidire quanto faticosamente concordato nel Protocollo di Kyoto.
Non è quindi un caso che le strategie di adattamento finalizzate a limitare – fin dove possibile – gli impatti negativi del cambiamento climatico, siano ormai oggetto di molteplici studi da parte di fondazioni, network e organismi intergovernativi africani. Un esempio tra gli altri è la rete AAKNet (con rappresentanti provenienti da 20 nazioni africane, da ONG e da agenzie dell’ONU) che ha come scopo la condivisione (con governi, autorità regionali e comunità locali di tutto il continente) di conoscenze ed esperienze utili a porre in atto concrete misure di adattamento ai cambiamenti climatici. Il problema della “resilienza climatica” appare sistematicamente tra i punti-chiave nella fitta agenda delle conferenze interafricane che, tra l’altro, con la loro crescente frequenza e ricchezza di dibattito sono testimonianza di un rapporto di collaborazione tra i governi africani molto più avanzato che tra i nostri europei.
La nuova solidarietà ambientale
Di fronte a questi scenari proposti dalla questione ambientale – scenari che negli ultimi anni non sono sostanzialmente cambiati – la solidarietà nei confronti delle aree più povere del pianeta assume un aspetto complesso. Da una parte occorre intensificare l’aiuto perché continenti come l’Africa possano accedere ad un livello di vita dignitoso. Dall’altra questo aiuto corre il rischio di essere vanificato dai disastri futuri se il mondo ricco e industrializzato non sarà capace di assumere la tutela dell’ambiente come un alto momento di solidarietà. Occorre infine che vi sia da parte nostra un surplus di aiuto economico finalizzato a contenere gli impatti negativi che in parte sono ormai inevitabili. Senza questa triplice azione lo sviluppo economico in corso in Africa come in altri continenti potrebbe correre il rischio di essere spazzato via in pochi decenni. E, non ultimo, occorre fermare al più presto la distruzione delle grandi foreste, che ha visto in questi ultimi anni aprirsi un fronte particolarmente critico in Africa Centrale, dove ad opera delle multinazionali del legno, europee ed asiatiche, sono andati persi oltre 80mila kmq. Una catastrofe in atto, che, oltre a distruggere habitat unici per biodiversità e bellezza, contribuirà pesantemente al riscaldamento globale: basti pensare che l'eliminazione della foresta del Congo – secondo “polmone” del pianeta, dopo l’Amazzonia – rilascerà fino a 34,4 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2050, pari a circa 60 volte le emissioni che l'Italia produce annualmente.

“Abitiamo tutti sullo stesso pianeta, vi è dunque un dovere di solidarietà per permettere ai paesi più vulnerabili, cioè a noialtri, di poter sviluppare politiche d’adattamento ai cambiamenti climatici” affermava Salifou Sawadogo, ministro burkinabé dell’Ambiente, durante i lavori del VII Forum Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile svoltosi nel 2009 a Ouagadougou (Burkina Faso). Con oltre 800 milioni di abitanti l’Africa, il continente più povero e meno industrializzato del mondo, rappresenta meno del 4% delle emissioni mondiali di gas serra. E’ quindi ampiamente motivata la richiesta di riparazione e indennizzo che in quella sede gli stati africani hanno deciso di rivolgere a noi paesi sviluppati per fare fronte agli effetti ormai non più rimediabili di sconvolgimenti climatici originati dal nostro sviluppo.
Come ha efficacemente sintetizzato Steve Sawyer, di Greenpeace International: “Gli obblighi legali, morali e politici dei paesi ricchi sono chiari: devono ridurre significativamente le loro emissioni e allo stesso tempo essere pronti a fornire supporto massiccio ai paesi più poveri [...] Le generazioni future non perdoneranno il nostro ritardo”.
Concludo con le parole di un profondo conoscitore della realtà africana, il comboniano Padre Kizito: “Per l’Africa, dove la gente dipende dalle risorse ambientali più che in ogni altro continente, la vulnerabilità di ecosistemi come le paludi in cui vivono i dinka del Sudan, o delle zone aride e semiaride in cui vivono i turkana del Kenya, è la vulnerabilità stessa dei dinka e dei turkana. Un cambiamento anche minimo, ma rapido, dell’ecosistema, può avere conseguenze catastrofiche, perché non ci sono possibilità di sopravvivenza alternative a quelle elaborate nel corso dei secoli.”.

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