Oltre i limiti del “moderno”, verso un “nuovo umanesimo”


Nella sua evoluzione la civiltà, pur progredendo, ha perso di vista il suo rapporto con la natura: è dunque necessario rileggere il progresso umano sulla base di un “nuovo umanesimo” che ne tenga conto


La civiltà moderna ha avuto meriti innegabili. Ha ampliato, approfondito, consolidato (almeno sulla carta, e poi, più parzialmente, nei percorsi storici) il campo della dignità umana. Con un cammino non lineare, ma tortuoso e complesso è comunque arrivata alla “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” del 1948. Ha sviluppato scienza, tecnica, democrazia. Al tempo stesso, tuttavia, ha costellato il suo percorso di fasi, situazioni, momenti di “disagio”, di “caduta”, di “peccato” (Oppenheimer, dopo Hiroshima) che ne hanno mostrato tutti i limiti. Il “negativo” del suo procedere, come già Goethe nell’ultima fase del “Faust” aveva ben colto.

Insomma: la natura, nella rimodulazione dei popoli nativi, del taoismo, dello zen, dell’induismo, della cosmo-logia e cosmo-nomia greche, dell’ebraismo, della liturgia cosmica del cristianesimo originario, patristico, medievale (San Bernardo: “Gli alberi e le rocce molte volte insegnano più degli esseri umani”; San Francesco: “Il canto che sorelle allodole” innalzano a Dio) è anche magistero per l’uomo. Non nell’integralità della sua forma, ma nella peculiarità di forme, percorsi, situazioni, contesti. Come bellezza, come sublime, come energheia, come physis, come forza, come cooperazione, come mistero …
Un magistero che nel moderno riemerge, tra gli altri, in Rousseau, in Nietzsche (da Così parlò Zarathustra a Umano, troppo umano), nel Leopardi della Ginestra, nel trascendentalismo americano (Emerson, Thoreau), in Dostoevskij (I Fratelli Karamazov). E poi ancora in Hesse, in Rilke, in Santayana, nell’ecologia profonda, nell’ecosofia, in vari filoni dell’etica ambientale (Taylor, Rolston, Callicott, Hargrove), in psicologia/psicanalisi, nei vari percorsi di sapere e prassi che nel Novecento si sono articolati in rapporto dialogico colla natura.

L’Esito del “Moderno”: la “Città dell’uomo” senza più bellezza
Contro il progetto dell’umanesimo neoplatonico-cristiano – un umanesimo che mirava a mantenere la Polis, la Città, il suo senso come proporzione, ordine, armonia, come Kosmos, come tensione e rapporto permanente con l’ordine della natura – nel “moderno” si afferma tuttavia un altro umanesimo che inalbera il vessillo della “volontà di potenza”, come un porre “l’uomo” “padrone e dominatore del mondo” (Cartesio).
Un umanesimo in cui progressivamente si perdono forma, suoni, colori (A.N. Whitehead). In cui si perde il “contatto col mondo della vita”. Un umanesimo, perciò, “tragico”, per usare le parole del grande storico della scienza ed epistemologo A. Koyré. In cui, con G. Bateson, pur nella speranza che comunque permanga “l’idea di una bellezza unificatrice ‘fondamentale’”, si avverte la perdita di bellezza: “La maggior parte di noi ha perso quel senso di unità di biosfera e umanità che ci legherebbe e ci rassicurerebbe tutti con un’affermazione di bellezza. [...] Abbiamo perduto il nocciolo del cristianesimo. Abbiamo perduto Shiva [...] la cui danza [...] è bellezza.”

L’Esito del “Moderno”: il reale ridotto ad oggetto L’essere umano che si afferma progressivamente come il padrone e dominatore del mondo, lo è, intanto, nella forma epistemologica dell’essenzialismo. L’uomo si arroga la potestas di controllare logicamente, scientificamente il mondo. E’ questa proprietà che apre poi le porte al controllo tecnico. Il reale non è più allora, trascendenza. Ma è schiacciato ad oggetto, ad ob-jectum, a qualcosa che è gettato lì a disposizione della misura, del “metron”, della manipolazione dell’uomo innalzato ad assoluta sovranità sul mondo. Un mondo che non è più creazione, Creatura di Dio e Culla di tutte le creature, ma deposito da usare strumentalmente. Un mondo dove il tempo è ridotto a tempo meccanico, a tempo di prestazione.
Il tempo del “moderno” è il tempo della cecità epistemica, del “passare” antropocentrico “ottuso” e “sicuro” “accanto al mistero” degli enti “senza notarlo” (cecità epistemica già colta da Pascal, da Horkheimer, da Heidegger, tra gli altri), in quanto il soggetto è irretito nella trama meccanicistica e riduzionistica dell’”abitare”, schiacciato a un operare strumentale finalizzato all’utile, al potere, al “principio di prestazione”.
Nel moderno, rovesciando l’impostazione platonica, orientale, cristiana, l’uomo è il padrone del tempo.
E là dove il tempo dell’uomo rimane ancora fondato in Dio, come nel calvinismo e nel puritanesimo, all’uomo tocca la declinazione antropocentrica di vivere il tempo come occasione di coglierne i segni di grazia e di trasformarli in produttività, in prestazioni di successo.
La seconda generazione del puritanesimo enuncerà addirittura l'equazione capitalistica “il tempo è danaro”.
Un tempo produttivistico che rimane anche nel marxismo, come è vero che sia Lenin che Gramsci solennizzano le figure di Taylor e Ford che condensano lo spirito del capitalismo novecentesco come icone universali, paradigmi intrascendibili.

Verso una nuova sintesi nell’umanesimo, tra etica e mondo della vita 
Oggi, riprendendo un tema già presente nell’agenda della filosofia critica dopo la tragedia della prima guerra mondiale, la “civiltà” umana appare ancora e ancor di più di fronte ad un bivio: o perire o ricreare un “nuovo umanesimo”.
Per la terza volta negli ultimi cent’anni si torna a parlare di “rifare il Rinascimento” (Mounier), di rifare l’umanesimo. Un primo appello era risuonato negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso (da Freud a Einstein, da Jung a Bergson, da Rosenzweig a Buber, da Florenskij a Berdjaev, da Maritain a Mounier a Guardini, da Gandhi a Tagore ad Aurobindo, da H. Hesse a T. Mann, da B. Croce a J. Huizinga). Un secondo appello si era concentrato tra gli anni ’40 e ’60 (dalla Scuola di Francoforte a Heidegger, da Einstein, Oppenheimer, Heisenberg a Teilhard de Chardin, da Schweitzer a Bateson). E oggi si sente oggi ancor più drammaticamente l’esigenza di ripensare alla radice lo statuto dell’“Abitare”.
Caduto il “mito” ottocentesco di una società giunta alla sua pienezza etica e razionale con la guida della borghesia (Hegel, ripreso oggi da Fukuyama), o di una liberazione antagonista, tutta storica e sociale (Marx), rimane oggi sulla scena, come tentativo di egemonia, un patto non costruito, ma fattuale, che è nelle cose, tra strapotere pratico della scienza e della tecnica – trionfo quindi della posizione positivistica di Saint-Simon e di Comte – e relativismo culturale. Ossia di un niccianesimo senza Nietzsche, come insorgenza autoaffermantesi di principi di edonismo, soggettivismo, pragmatismo. 
Oggi, dopo Oppenheimer, Wiener, Einstein e l’ultimo Popper, l’apertura progettuale ha un segno molto più impegnativo, direi tragico.
- J.R. Oppenheimer: l’umanità ha conosciuto con Hiroshima quel vero “peccato” di cui la Genesi era stata solo intuizione anticipatrice.

- N. Wiener: l’umanità deve evitare tre cadute: che la conoscenza si trasformi in onniscienza, che la religione si trasformi in totalitarismo, che il potere si trasformi in onnipotenza.

- A. Einstein: “Un nuovo modo di pensare è essenziale se l’umanità vuole sopravvivere e raggiungere livelli più alti”. Quindi “dobbiamo rivoluzionare il nostro modo di pensare, rivoluzionare il nostro modo di agire, e dobbiamo avere il coraggio di rivoluzionare le relazioni fra le nazioni del mondo”.

- K. Popper: tre sono le “bombe” che minacciano gravemente l’umanità: quella atomica, quella demografica, quella televisiva.

Alla riflessione di questi quattro monumenti culturali va aggiunta l’ultima riflessione sullo stato di salute di “Gaia”, del Pianeta che è Madre ospitante della civiltà umana. E.O. Wilson (biologo), P. Crutzen (chimico), M. Rees (astronomo), J. Diamond (storico), oggi tra le maggiori figure della ricerca e della cultura mondiale, concordano su un punto con la maggior parte degli scienziati: il Pianeta rischia un “collasso” irrimediabile.
Addirittura, quel grande scienziato, tecnologo ed epistemologo dell’ecologia che è J. Lovelock, rovesciando le interpretazioni ottimistiche della sua prima fase di ricerca (1979) è arrivato ultimamente (2006) a sostenere che la vita dell’uomo sul Pianeta rischia di scomparire prima della fine del secolo.
Ecco perché più che mai calzanti appaiono le indicazioni di A. Einstein: là dove ammonisce che scienza e tecnica da sole – senza la eccezionale ricchezza culturale espressa nel corso di secoli e millenni da figure quali Mosè, Buddha, Socrate, Gesù, S. Francesco, Spinoza, Goethe e, nel Novecento, Schweitzer, Gandhi, Tagore – non sono sufficienti a governare verso il meglio la complessità della storia.



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